Permessi al lavoratore

In materia di permessi concedibili al lavoratore dipendente (pubblico o privato), il quale “ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile (...) convivente di fatto (...) parente o affine entro il secondo grado”, così come previsto dall’art. 33, co. 3, Legge 104/1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate); in una recente decisione della Corte di cassazione, con la quale è stato rigettato il ricorso del datore di lavoro – riconoscendo anche la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso stesso –, è stato ribadito il principio secondo cui detta assistenza non può in ogni caso essere intesa come mera assistenza al soggetto disabile presso la propria abitazione, in quanto deve comprendere anche gli adempimenti di tutte quelle attività che il destinatario di assistenza non sia nella condizione di adempiervi in forma autonoma. Pertanto, l’eventuale abuso di tali permessi è contestabile al lavoratore solo se li utilizza per palesi fini diversi dall’assistenza in favore del familiare, intesa sensu lato. Infatti, la ratio della norma sopra richiamata è quella «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza al disabile che si realizzano in ambito familiare, attraverso una serie di benefici a favore delle persone che se ne prendono cura». Sicché, le esigenze organizzative del datore di lavoro non possono incidere sulla scelta del lavoratore rispetto a quando fruire dei suddetti permessi, i cui giorni, se da un lato debbono essere comunicati al datore di lavoro, dall’altro lato non sono affatto soggetti al suo gradimento, tantomeno alla sua discrezionalità. Perciò si configura abuso solo «quando il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza in senso ampio in favore del familiare, cioè in difformità dalle modalità richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è previsto». Ne consegue, che «non integra abuso la prestazione di assistenza al familiare disabile in orari non integralmente coincidenti con il turno di lavoro, in quanto si tratta di permessi giornalieri su base mensile, e non su base oraria»; ciò anche perché la richiesta di permesso è avanzata dal lavoratore quando ancora lo stesso non è detto che sappia con precisione quali incombenze dovrà affrontare nell’interesse della persona assistita, nonché il tempo necessario per il relativo assolvimento. Sicché, la richiesta dei permessi è «legittimamente riferita all’intera giornata, fermo restando che in concreto e caso per caso l’assistenza potrà essere distribuita durante l’arco della giornata secondo le variabili esigenze del disabile e secondo la tipologia delle incombenze da adempiere» (Cass. Sez. Lav. Ord. 26417/2024).

Pubblicazione n. 31 del 19.10.2024

Responsabilità del Comune

In materia di danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia, ex art. 2051 Codice civile, dunque prescindendo da eventuali esiti del giudicato penale, l’Ente pubblico, nel caso di specie il Comune, quale custode dei propri immobili e relativi impianti, ne è di fatto responsabile oggettivamente. Sicché, ai fini della configurabilità di detta responsabilità è «sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza». Nel caso qui in esame, quindi, risulta provato al di là di dubbi che un giovane sia rimasto vittima per folgorazione giacché venuto a contatto con dei lampioni di illuminazione mentre giocava a pallone con altri ragazzi presso il piazzale antistante la scuola; lampioni ed intero impianto di illuminazione risultati in condizioni fatiscenti con dimostrato nesso causale con l’evento morte, e che pertanto tale stato di non sicurezza, quantomeno con adeguata recinzione che potesse tenere a distanza le persone, ha portato ad escludere l’assunto difensivo del caso fortuito. Vi è più, infatti, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, va affermata la responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni causati dalle condizioni in cui versa la cosa che ha in custodia «anche quando questa sia modificata ed in quanto e come sia stata modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere oggettivamente la possibilità una qualsiasi pronta reazione». Tuttavia, resta sempre da stabilire se il danno è causato dai lavori al bene in custodia «in costanza dei medesimi», oppure se dipende dalla cosa in custodia «come risultante all’esito dei lavori ed una volta questi cessati da tempo idoneo a consentire il ripristino di una oggettiva possibilità di intervento o adeguamento da parte del custode». Per tali presupposti, sempre con riferimento al caso in trattazione, non soccorre il Comune la circostanza che le condizioni dell’impianto di illuminazione potessero essere ascritte all’esecutore dei lavori. Sicché, per tutti motivi, il Comune va condannato anche al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore delle parti controricorrenti (Cassazione civile, luglio-settembre 2024).

Pubblicazione n. 30 del 25.09.2024

Stress lavoro-correlato

Premesso, che un dipendente della Pubblica Amministrazione aveva agito, con successo, innanzi il Tribunale competente per ottenere la condanna dell’Ente al risarcimento del danno per la «forzata inattività cui era stata costretta», la sentenza di prime cure veniva però riformata dalla Corte d’appello la quale, pronunciandosi sull’impugnazione dell’Ente condannato, rigettava proprio la domanda risarcitoria originariamente proposta – ovverosia che la privazione delle mansioni lamentata, come accertato dalla C.T.U. medico-legale, sarebbe stata causa di un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti, con un danno biologico temporaneo dal tempo della sua insorgenza – in quanto non sussisteva alcuna correlazione cronologica tra la sintomatologia presentata dal lavoratore e gli episodi denunciati. Ebbene, proposto ricorso per Cassazione, così chiosano i giudici di legittimità. Non vi è dubbio che da parte dell’Amministrazione vi sia stato un «comportamento violativo dell’art. 2087 cod. civ., norma che postula la rilevanza di quei doveri del datore di lavoro nei confronti dei suoi subordinati che vanno oltre il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente essendo estesi all’obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato». Infatti, si legge ancora nel provvedimento, «il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa». In particolare, riguardo ai rischi afferenti allo stress lavoro-correlato, il datore di lavoro è tenuto a valutarli e dunque prevenirli in primis sulla scorta del suddetto art. 2087 cod. civ., fonte generale di un obbligo in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Perciò, in tale «prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori si alimenta l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro». Sicché, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello, in diversa composizione, la quale procederà ad un nuovo esame e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità (Cass. Sez. Lav. Ord. 22161/24).

Pubblicazione n. 29 del 09.09.2024