Custodia degli animali

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Palermo confermava la condanna per le lesioni personali colpose cagionate ad un ciclista a causa dell’urto con un cane circolante liberamente e senza guinzaglio su area pubblica, di proprietà dell’imputato.

Le doglianze dell’interessato alla base del ricorso per cassazione proposto dalla sua difesa muovono su due presupposti: il primo, perché la Corte territoriale lo aveva ritenuto responsabile riconoscendogli una “posizione di garanzia” in forza della sola sua titolarità del diritto di proprietà sul cane, nonostante invece lo stesso animale fosse materialmente nel possesso effettivo dei suoi genitori, fuggendo dall’abitazione di questi ultimi; il secondo, quindi, perché dalle deposizioni rese da alcuni testimoni indicati nella lista depositata dalla stessa difesa dell’imputato sarebbe emerso che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, il possesso effettivo ed esclusivo del cane era da parte dei suoi genitori e non in capo a se stesso, con conseguente decisività ai fini dell’esclusione della propria posizione di garanzia.

Ebbene, richiamando precedente giurisprudenza sul punto, i giudici di legittimità hanno invece ribadito il principio secondo cui se da un lato «l’obbligo di custodia dell’animale sorge ogni qualvolta sussista una relazione di semplice detenzione, anche solo materiale e di fatto tra l’animale e una data persona, non essendo necessario l’accertamento di un rapporto di proprietà in senso civilistico, nella specie, quest’ultimo, ritenuto sussistente in capo al prevenuto»; dall’altro lato la “posizione di garanzia” assunta dal proprietario di un cane impone al medesimo l’obbligo di «adottare le cautele necessarie a prevenire le prevedibili azioni e reazioni dell’animale, con la conseguenza per cui il proprietario risponde a titolo di colpa delle lesioni cagionate a terzi dallo stesso animale anche qualora ne abbia affidato la custodia a persona inidonea a controllarlo».

In conclusione, il ricorso è stato dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre la somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, giacché valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso. Consegue altresì la condanna alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile, liquidati in euro tremila, oltre accessori come per legge. (Cassazione, Quarta Sezione Penale, Sentenza 20949/25).

Pubblicazione 16/2025

Psichiatrici e carcere

La CEDU ha condannato l’Italia a versare le somme di novemila euro per danno morale (oltre imposte), più ottomila euro per spese legali (oltre imposte), ad un soggetto affetto da gravi patologie psichiatriche ristretto per anni in carcere nonostante la sua particolare condizione di salute mentale, anziché ricoverato in idonea struttura (diversa documentazione penitenziaria fa riferimento ad un disturbo della personalità borderline e antisociale, altra ad un disturbo bipolare, nonché ad un deficit dell’attenzione e tossicodipendenza, per il quale è stato seguito fin dall’infanzia dai servizi di salute mentale del territorio). Sentenza del 27 Marzo 2025 (Ricorso n. 4217/23).

Sul mantenimento in detenzione del ricorrente (estratto) - La Corte rammenta che, anche se non vi è un obbligo generale di liberare un detenuto per motivi di salute, in alcune situazioni si può imporre la sua liberazione o il suo trasferimento in un istituto di cura. Questo si verifica quando lo stato di salute del detenuto è di una gravità tale che si rendono necessarie delle misure di natura umanitaria o quando non è possibile la presa in carico in ambiente penitenziario comune, cosicché il detenuto deve essere trasferito in un reparto specializzato o in una struttura esterna. La Corte rammenta, inoltre, che le autorità interne devono esaminare tali questioni in maniera approfondita quando decidono di incarcerare una persona affetta da disturbi psichici. Nella fattispecie, non viene messo in discussione che il ricorrente sia affetto da gravi disturbi psichici. Se, da un lato, nella maggior parte delle relazioni dei medici dei servizi penitenziari si concludeva che era possibile curarlo in carcere, vi erano molti elementi che facevano sorgere seri dubbi a tale riguardo. In primo luogo, una perizia indipendente descriveva i disturbi del ricorrente come reattivi alla detenzione, ponendo così l’ipotesi che i disturbi in questione si aggravassero in caso di mantenimento in carcere. In secondo luogo, la successiva relazione dell’equipe medica affermava chiaramente che i disturbi del ricorrente erano difficili da gestire in carcere, e che il suo stato di salute era dunque incompatibile con la detenzione. Inoltre, le relazioni comportamentali relative al ricorrente esprimevano anche delle preoccupazioni per quanto riguarda la possibilità di curarlo in carcere, e segnalavano delle difficoltà per quanto riguarda la gestione del suo caso. In terzo luogo, gli stessi tribunali interni hanno espresso dei dubbi a tale proposito. La Corte rileva altresì che l’assenza di cure adeguate pone un ulteriore problema, cioè al detenuto affetto da una patologia psichica talmente grave gli è di fatto impedito di comprendere lo scopo del reinserimento sociale che persegue la detenzione, e dunque di beneficiarne.

Pubblicazione 15/2025

Licenziamento legittimo

Preliminarmente, nel caso in esame, secondo le doglianze difensive del lavoratore licenziato, la sentenza impugnata recherebbe motivazione solo apparente nell’affermare che effettuare una pausa al bar durante l’attività lavorativa possa costituire fatto illecito al punto da consentire il ricorso ai servizi di investigazione privata.

In realtà, invece, secondo giurisprudenza consolidata, le disposizioni dello Statuto dei lavoratori nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria. Cioè a dire che detto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione contrattuale.

Invero, i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti oppure integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, anche “laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione”.

Vi è più, infatti, la nozione di “patrimonio aziendale” tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell’attività dei lavoratori va intesa in una accezione estesa, ossia il proprio patrimonio così inteso è costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, “ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico”.

In estrema sintesi, circa il controllo mediante agenzie investigative, la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale anche in termini della “lesione all’immagine e al patrimonio reputazionale dell’azienda, non meno rilevanti dell’elemento materiale che compone la medesima” (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 8707/2025).

Pubblicazione 14/2025