Pena sostitutiva

In ordine al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, disparità di trattamento rispetto ad altri coimputati nel medesimo reato e sostituzione della pena detentiva, la Corte di legittimità ricorda: in primis, il «principio consolidato per cui, in tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione». Infatti, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche «non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione», atteso, inoltre, che «il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo»; in secundis, in tema di determinazione della misura della pena rispetto all’ipotesi di disparità di trattamento tra più soggetti imputati in concorso nello stesso reato, il giudice del merito «non è gravato dell’onere motivazionale di procedere alla valutazione comparativa delle singole posizioni e di motivare in ordine alla eventuale differenziazione delle pene inflitte, spiegando che il trattamento sanzionatorio deve essere definito sulla base di parametri squisitamente individuali»; in terzis, il giudice, nel decidere se applicare una pena sostitutiva o scegliere quale pena applicare, deve «valutare quale sia la pena più idonea alla rieducazione del condannato e se sia possibile, attraverso opportune prescrizioni, prevenire il pericolo di commissione di altri reati», tenuto altresì conto dei precedenti penali del reo che sono «da valutare non tanto nella prospettiva della meritevolezza del beneficio della sostituzione, quanto nella prospettiva dell’efficacia della pena sostitutiva e della possibilità di considerarla più idonea alla rieducazione rispetto alla pena detentiva» (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., Sent. 12331/2024).

Pubblicazione n. 25 del 24.04.2024

IMU non dovuta

È costituzionalmente illegittimo l’art. 9, comma 1, del Decreto Legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) nella parte in cui non prevede che non sia dovuta l’IMU per gli immobili occupati abusivamente e relativamente ai quali sia stata presentata tempestiva denuncia in sede penale. Infatti, come precisano i giudici delle leggi, la perdita del possesso dell’immobile «assumerebbe un particolare significato alla luce, da un lato, della denuncia agli organi istituzionali da parte del proprietario dell’immobile occupato abusivamente e, dall’altro, dell’inerzia delle autorità preposte al suo sgombero, cosicché sarebbe irragionevole riconoscere al proprietario di un immobile inagibile o inabitabile (eventualmente, a causa della sua inerzia) una riduzione della base imponibile IMU e prevedere, invece, la tassazione integrale a carico del proprietario di un immobile occupato abusivamente per causa non dipendente dalla sua volontà e privo di strumenti di tutela giuridica per recuperarne il possesso». Inoltre, la disposizione normativa censurata «sarebbe in contrasto anche con l’art. 42, secondo comma, Cost. e con l’art. 1 Prot. addiz. CEDU, i quali garantiscono e tutelano la proprietà privata, perché quest’ultima dovrebbe attribuire l’esercizio di azioni a tutela della proprietà o del possesso, ivi incluso l’intervento della forza pubblica per lo sgombero dell’immobile e per di più non sarebbe consentito alla pubblica amministrazione trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti». Pertanto, «indipendentemente dalla nozione di possesso cui debba farsi riferimento a proposito dell’IMU, è irragionevole affermare che sussista la capacità contributiva del proprietario che abbia subito l’occupazione abusiva di un immobile che lo renda inutilizzabile e indisponibile e si sia prontamente attivato per denunciarne penalmente l’accaduto». Sicché, deve affermarsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, D.Lgs. 23/2011, per violazione degli artt. 3, co. 1, e 53, co. 1, Cost., «nella parte in cui non prevede che non sono soggetti all’imposta municipale propria, per il periodo dell’anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all’autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli artt. 614, secondo comma, o 633 cod. pen. o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale» (Corte costituzionale, Sentenza 60/2024).

Pubblicazione n. 24 del 21.04.2024

In tema di diffamazione

In tema di diffamazione, l’individuazione del soggetto passivo «deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali, i quali devono essere valutati complessivamente, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre; così da potersi individuare, con ragionevole certezza, l’offeso e desumere la piena e immediata consapevolezza, da parte di chiunque abbia letto l’articolo, dell’identità del destinatario della diffamazione». Perciò, «la condotta diffamatoria si sostanzia, nella sua oggettiva materialità, nella propalazione di notizie lesive della reputazione di un individuo, intesa come l’insieme delle qualità morali, intellettuali e fisiche da cui dipende il valore della persona nel contesto sociale in cui vive». Sicché, l’accertamento dell’offensività della condotta contestata «impone un apprezzamento sistematico delle parole, scritte o pronunciate, rilevando, sotto tale profilo, esclusivamente il significato obiettivo che l’espressione contestata assume all’interno di un determinato ambiente e in uno specifico contesto storico, non le sconvenienze, né l’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza, ma solo quelle propalazioni che incidono, nella loro oggettività e secondo il comune senso di decoro, sulla considerazione che la persona (diffamata) ha acquisito, in quel contesto storico, all’interno del gruppo sociale ove essa è inserita. Una condotta oggettivamente diffamatoria, tuttavia, può essere giustificata dall’esercizio della libera manifestazione del proprio pensiero (posto a fondamento del diritto di critica), purché, all’interno di un generale contemperamento di pari diritti di libertà, si rispetti la veridicità della notizia divulgata (in mancanza della quale la critica sarebbe pura congettura e mera occasione di dileggio e mistificazione) e si utilizzino forme espositive corrette, strettamente funzionali alle finalità di disapprovazione, che non trasmodino nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione». Tanto premesso, «il tratto caratteristico del diritto di critica, quale diretta manifestazione della libertà di manifestazione del pensiero, consiste nel fatto che esso si manifesta attraverso giudizi e valutazioni. In ciò la differenza rispetto al diritto di cronaca (che dei fatti è - tendenzialmente - fredda rappresentazione): espressione di un giudizio, il diritto di critica; rappresentazione di fatti, il diritto di cronaca» (Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza 14402/2024).

Pubblicazione n. 23 del 19.04.2024

Professione forense

In materia di esercizio abusivo di una professione, nel caso in esame di avvocato, costituisce opinione dominante nella giurisprudenza di legittimità «il principio secondo il quale integra il reato di esercizio abusivo di una professione di cui all’art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato. In senso conforme a tale orientamento si è, altresì, puntualizzato che non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato il soggetto che si limiti all’occasionale compimento di una attività stragiudiziale, non potendo una prestazione isolata essere sintomatica di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato» (Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, Sentenza 13341/2024).

Dispositivo dell’art. 348 Codice Penale: Chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni con la multa da euro 10.000 a euro 50.000. La condanna comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata. Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo”.

Pubblicazione n. 22 del 16.04.2024