Responsabilità del Comune

In materia di danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia, ex art. 2051 Codice civile, dunque prescindendo da eventuali esiti del giudicato penale, l’Ente pubblico, nel caso di specie il Comune, quale custode dei propri immobili e relativi impianti, ne è di fatto responsabile oggettivamente. Sicché, ai fini della configurabilità di detta responsabilità è «sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza». Nel caso qui in esame, quindi, risulta provato al di là di dubbi che un giovane sia rimasto vittima per folgorazione giacché venuto a contatto con dei lampioni di illuminazione mentre giocava a pallone con altri ragazzi presso il piazzale antistante la scuola; lampioni ed intero impianto di illuminazione risultati in condizioni fatiscenti con dimostrato nesso causale con l’evento morte, e che pertanto tale stato di non sicurezza, quantomeno con adeguata recinzione che potesse tenere a distanza le persone, ha portato ad escludere l’assunto difensivo del caso fortuito. Vi è più, infatti, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, va affermata la responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni causati dalle condizioni in cui versa la cosa che ha in custodia «anche quando questa sia modificata ed in quanto e come sia stata modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere oggettivamente la possibilità una qualsiasi pronta reazione». Tuttavia, resta sempre da stabilire se il danno è causato dai lavori al bene in custodia «in costanza dei medesimi», oppure se dipende dalla cosa in custodia «come risultante all’esito dei lavori ed una volta questi cessati da tempo idoneo a consentire il ripristino di una oggettiva possibilità di intervento o adeguamento da parte del custode». Per tali presupposti, sempre con riferimento al caso in trattazione, non soccorre il Comune la circostanza che le condizioni dell’impianto di illuminazione potessero essere ascritte all’esecutore dei lavori. Sicché, per tutti motivi, il Comune va condannato anche al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore delle parti controricorrenti (Cassazione civile, luglio-settembre 2024).

Pubblicazione n. 30 del 25.09.2024

Stress lavoro-correlato

Premesso, che un dipendente della Pubblica Amministrazione aveva agito, con successo, innanzi il Tribunale competente per ottenere la condanna dell’Ente al risarcimento del danno per la «forzata inattività cui era stata costretta», la sentenza di prime cure veniva però riformata dalla Corte d’appello la quale, pronunciandosi sull’impugnazione dell’Ente condannato, rigettava proprio la domanda risarcitoria originariamente proposta – ovverosia che la privazione delle mansioni lamentata, come accertato dalla C.T.U. medico-legale, sarebbe stata causa di un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti, con un danno biologico temporaneo dal tempo della sua insorgenza – in quanto non sussisteva alcuna correlazione cronologica tra la sintomatologia presentata dal lavoratore e gli episodi denunciati. Ebbene, proposto ricorso per Cassazione, così chiosano i giudici di legittimità. Non vi è dubbio che da parte dell’Amministrazione vi sia stato un «comportamento violativo dell’art. 2087 cod. civ., norma che postula la rilevanza di quei doveri del datore di lavoro nei confronti dei suoi subordinati che vanno oltre il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente essendo estesi all’obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato». Infatti, si legge ancora nel provvedimento, «il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa». In particolare, riguardo ai rischi afferenti allo stress lavoro-correlato, il datore di lavoro è tenuto a valutarli e dunque prevenirli in primis sulla scorta del suddetto art. 2087 cod. civ., fonte generale di un obbligo in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Perciò, in tale «prospettiva di progressiva rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori si alimenta l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di lavoro». Sicché, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello, in diversa composizione, la quale procederà ad un nuovo esame e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità (Cass. Sez. Lav. Ord. 22161/24).

Pubblicazione n. 29 del 09.09.2024

Licenziamento giusta causa

In materia di licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, su elementi di prova forniti da un’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro, i giudici di legittimità hanno ribadito il principio secondo il quale è inammissibile il ricorso per cassazione sulla base di doglianze riferibili a taluni controlli audiovisivi ed investigativi affidati ad una agenzia investigativa effettuati «attraverso appostamenti e foto, i cui esiti confluivano in rapporti giornalieri, tutti riportati nella relazione investigativa»; nel senso che «l’attività investigativa si è svolta principalmente tramite attività di osservazione, riportata in appunti giornalieri, in alcune giornate a campione (...) al fine di individuare elementi utili a stabilire eventuali assenze anomale del dipendente durante l’orario di lavoro e solo limitatamente anche attraverso l’uso della telecamera». Tuttavia, viceversa, il datore di lavoro non può impiegare l’agenzia investigativa per verificare il corretto adempimento delle prestazioni lavorative del dipendente cui il medesimo è tenuto. Infatti, secondo costante giurisprudenza di legittimità fin qui formatasi, «il controllo delle agenzie investigative deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducigli al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale». Rammentando, altresì, che anche in «presenza di un sospetto di attività illecita, occorre rispettare la disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e segnatamente dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, al fine di assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto». Per cui, l’assunto dichiarato dalla Corte territoriale, secondo cui l’attività lavorativa del ricorrente «poteva essere controllata dall’agenzia investigativa al fine di verificare il corretto adempimento delle prestazioni cui questi era tenuto, pregiudica ogni successivo argomentare», imponendo così un nuovo esame al giudice del rinvio che «verificherà nella concretezza della vicenda sottoposta al suo giudizio se il controllo investigativo riguardasse l’adempimento o l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore, oppure, senza sconfinare in una attività di vigilanza dell’attività lavorativa, fosse finalizzato all’accertamento di atti illeciti del lavoratore non riconducigli al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale» (Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 17004/2024).

Pubblicazione n. 28 del 01.07.2024