Psichiatrici e carcere

La CEDU ha condannato l’Italia a versare le somme di novemila euro per danno morale (oltre imposte), più ottomila euro per spese legali (oltre imposte), ad un soggetto affetto da gravi patologie psichiatriche ristretto per anni in carcere nonostante la sua particolare condizione di salute mentale, anziché ricoverato in idonea struttura (diversa documentazione penitenziaria fa riferimento ad un disturbo della personalità borderline e antisociale, altra ad un disturbo bipolare, nonché ad un deficit dell’attenzione e tossicodipendenza, per il quale è stato seguito fin dall’infanzia dai servizi di salute mentale del territorio). Sentenza del 27 Marzo 2025 (Ricorso n. 4217/23).

Sul mantenimento in detenzione del ricorrente (estratto) - La Corte rammenta che, anche se non vi è un obbligo generale di liberare un detenuto per motivi di salute, in alcune situazioni si può imporre la sua liberazione o il suo trasferimento in un istituto di cura. Questo si verifica quando lo stato di salute del detenuto è di una gravità tale che si rendono necessarie delle misure di natura umanitaria o quando non è possibile la presa in carico in ambiente penitenziario comune, cosicché il detenuto deve essere trasferito in un reparto specializzato o in una struttura esterna. La Corte rammenta, inoltre, che le autorità interne devono esaminare tali questioni in maniera approfondita quando decidono di incarcerare una persona affetta da disturbi psichici. Nella fattispecie, non viene messo in discussione che il ricorrente sia affetto da gravi disturbi psichici. Se, da un lato, nella maggior parte delle relazioni dei medici dei servizi penitenziari si concludeva che era possibile curarlo in carcere, vi erano molti elementi che facevano sorgere seri dubbi a tale riguardo. In primo luogo, una perizia indipendente descriveva i disturbi del ricorrente come reattivi alla detenzione, ponendo così l’ipotesi che i disturbi in questione si aggravassero in caso di mantenimento in carcere. In secondo luogo, la successiva relazione dell’equipe medica affermava chiaramente che i disturbi del ricorrente erano difficili da gestire in carcere, e che il suo stato di salute era dunque incompatibile con la detenzione. Inoltre, le relazioni comportamentali relative al ricorrente esprimevano anche delle preoccupazioni per quanto riguarda la possibilità di curarlo in carcere, e segnalavano delle difficoltà per quanto riguarda la gestione del suo caso. In terzo luogo, gli stessi tribunali interni hanno espresso dei dubbi a tale proposito. La Corte rileva altresì che l’assenza di cure adeguate pone un ulteriore problema, cioè al detenuto affetto da una patologia psichica talmente grave gli è di fatto impedito di comprendere lo scopo del reinserimento sociale che persegue la detenzione, e dunque di beneficiarne.

Pubblicazione 15/2025