Dipendente e rappresentante sindacale aziendale licenziato e condannato alla refusione delle spese di giudizio di legittimità, oltre accessori come per legge. Ebbene, al dipendente ricorrente veniva contestato di aver «pubblicato nella sua bacheca Facebook, in maniera visibile dalla generalità degli utenti, alcuni commenti gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili e di persone notoriamente legate alla azienda medesima», con conseguente licenziamento «sul rilievo che i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro». Sicché, se da un lato, in genere, al lavoratore è garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, dall’altro lato ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del medesimo datore di lavoro, giacché «il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale». Inoltre, con particolare riguardo alla posizione del lavoratore sindacalista, «sebbene garantito dagli artt. 21 e 39 della Costituzione, il diritto di critica “incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.) di tutela della persona umana, (con la conseguenza) che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore possa essere legittimamente sanzionato in via disciplinare». In sintesi, i giudici del merito, attenendosi ai principi suesposti, hanno correttamente «escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore. Tale accertamento esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 35922/2023 - Presidente: Doronzo; Relatore: Ponterio).
Pubblicazione n. 48 del 30.12.2023